Pedalavano per (com)battere la fame

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Sentiamo spesso parlare del ciclismo eroico, uomini protagonisti di imprese impossibili, mitizzati al loro tempo, leggenda oggi.

Emblema di una Italia povera, contadina, non scolarizzata; figli di quel popolo nato durante i fasti del progresso di fine ‘800 e vissuto tra il prima e dopo la tragedia della Grande Guerra. 

Girardengo, Binda, i fratelli Pelissier, nomi venerati tutt’oggi.

Tanti gli oscuri gregari, affamati di un ingaggio, per una gara sola, per racimolare qualche soldo.

Sperando di raggiungere la vetta, non quella della tappa ma quella metaforica del successo.

Non per la gloria: farcela significava soldi con cui sfamarsi, comprare i vestiti e le scarpe ai figli.

Eppure anche tra chi la vetta l’aveva raggiunta, sia reale che metaforica, c’era chi non dimenticava chi era e da dove veniva: Ottavio Bottecchia.

C’è un episodio che mi è tornato in mente l’altro giorno, ascoltando un vecchio contributo del sempre compianto Gianni Mura.

Bruno Roghi, destinato a diventare l’unico giornalista a dirigere i tre maggiori quotidiani sportivi italiani, incontrò Bottecchia dopo una Milano Sanremo non vinta. 

Raccontò che lo vide mangiare da un cartoccio del pane accompagnato da croste di formaggio pecorino. Accanto “la sacchetta” gara, con dentro pollo, tortine di riso, un paio d’arance: la stava portando a casa, per sfamare la famiglia.

Uomo di poche parole il Bottecchia, il pistard e poi giornalista Henry Desgrange lo definì l’énigmatique, perché parlava poco e ancor meno si capiva della sua strategia di gara.

Ma una volta si aprì al suo amico Orlandini, corrispondente della Gazzetta, e in una intervista gli disse più o meno “io non sono qui per la gloria, non sono qui per la patria, non sono qui per gli applausi della gente o i sorrisi delle donne, non sono qui per le bande: io sono qui per fare schei“. 

Al giorno d’oggi leggeremmo queste parole come sinonimo di avidità. Nulla di tutto questo, Bottecchia non era né avido né gretto: quando iniziò a guadagnare davvero la prima cosa che fece fu comprare i vestiti per tutti i 32 o 33 nipoti. Erano famiglie numerose…

No, la bici, il ciclismo sportivo era la via d’uscita dalla miseria più nera, per uomini che si spezzavano la schiena nei campi per ricavarne meno di che sfamare la propria famiglia.

Non pedalavano per passione e gloria: pedalavano per combattere la fame.

La bici era solo un lavoro migliore, uno che ti permetteva, se riuscivi, di guadagnare di che vivere dignitosamente.

I campioni idolatrati dalla folla per il gesto sportivo, senza dubbio. Ma ancor più perché simbolo vivente che un futuro migliore era possibile.

Una speranza, per troppi un’utopia.

Può questo farceli amare di meno, sapere che alla fine correvano per denaro, amore per la bici forse ma non necessariamente?

Si, anzi io li amo e li ammiro proprio per questo.

Facevano un lavoro durissimo, sacrifici enormi per non far mancare alla propria famiglia il pane in tavola: questo l’eroismo più grande.

Buone pedalate

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